“E’ stata dura, durissima, ma eccezionalmente emozionante. Non conta nulla essersi allenati per un anno intero, conoscere il percorso a menadito, sapere i dislivelli metro per metro: New York è difficile, difficilissima, e te ne accorgi solo quando la corri.”
Il racconto di Domenico
6 novembre 2011. Ebbene sì, ce l’ho fatta. New York è mia. E’ stata dura, durissima, ma eccezionalmente emozionante. Non conta nulla essersi allenati per un anno intero, conoscere il percorso a menadito, sapere i dislivelli metro per metro: New York è difficile, difficilissima, e te ne accorgi solo quando la corri.
Zatopek ha ragione quando dice: “se vuoi vivere un’altra vita, corri una maratona”, ma io completerei questa riflessione dicendo: “se vuoi conoscere davvero te stesso, corri la maratona di New York”. Gioia, disperazione, esaltazione, stupore, tenerezza, dolore, caparbietà, rimpianto, terrore, coraggio, motivazione, commozione: a New York provi tutto e riesci a capire dove puoi arrivare se lo vuoi davvero. Non è retorica: è storia.
La giornata è cominciata prestissimo: sveglia alle 3.00, perchè a New York bisogna trovarsi al Marathon Village non oltre le 6.00. Via in metropolitana, alle 3.40 passa il treno: ci siamo io, 2 homeless ed il conducente. Alle 4.10 arrivo davanti allo Sheraton Towers, dove avevo l’appuntamento col team del tour operator. Alle 5.00 partenza col pullman verso l’imbarco di Staten Island: un viaggio di 30 minuti attraverso il sud della città, vedo Ground Zero con la nuova Freedom Tower, Wall Street e poi, finalmente, il porto. Enorme, come tutto in questa incredibile città. Mi imbarco subito sul primo traghetto, è ancora buio pesto. A metà della traghettata mi godo una delle albe più belle mai viste: il sole che spunta sulla baia di Hudson è qualcosa di indimenticabile. Peccato essere solo.
La giornata si preannuncia splendida, neanche una nuvola all’orizzonte. Scendiamo dal traghetto e ci incamminiamo verso l’ultimo trasferimento, un pullman che ci porta al Marathon Village. 1000 pensieri cominciano ad abitare la mente, ma il pullman che si ferma ed apre le porte mi fa tornare saldamente a contatto con la realtà. Qui comincio a notare la terrificante organizzazione americana: tutto si svolge in maniera ordinatissima, ci sono migliaia di volontari che gestiscono l’immenso flusso di oltre 47.000 atleti. Mi dirigo verso la parte Orange del village, quella relativa al mio pettorale. Assisto all’arrivo di centinaia di scatole di bagels ( pagnotte semidolci ) che verranno poco dopo distribuite a tutti coloro i quali le volessero, insieme a caffè caldo, integratori ed acqua. Poi giro la testa verso est e mi “accorgo” di lui, il Verrazzano Bridge, meraviglioso, che segnerà l’inizio della mia avventura. Nel Village abbiamo dovuto trascorrere oltre 3 ore, fino alla partenza: l’unica pecca di un’organizzazione perfetta, ma purtroppo ogni anno non può essere altrimenti dato che alle 7.00 del marathon day New York chiude.
Schermi giganti annunciano tutto l’annunciabile, fra cui la chiamata delle tre ondate: io sono nella seconda ed alle 8.10 annunciano l’apertura del corral di partenza. Mi preparo, consegno la sacca con la roba che utilizzerò all’arrivo per cambiarmi ed asciugarmi e mi dirigo verso il mio ingresso. Un po’ di stretching, un po’ di riscaldamento e poi via: mi immetto nel serpentone di atleti fermi in attesa del via. Dopo pochi minuti ha inizio il rito del lancio dei vestiti: vecchie giacche a vento, vecchie tute, vecchie maglie volano sulle teste di tutti per poi ricadere a terra. Verranno raccolte dai volontari, sanificate e donate agli homeless di NYC. Anche questo è la NYC Marathon.
Si avvicinano le 10.10, la tensione aumenta. Accendo l’orologio GPS, vedo che prende subito i satelliti e mi tranquillizzo. Il serpentone comincia lentamente a muoversi verso la start line, in attesa del colpo di cannone. All’improvviso sentiamo alcune note in lontananza: è l’inno americano, il silenzio cala sulle griglie e l’emozione ricomincia a farsi strada. Pochi secondi dopo la fine dell’inno, il cannone: è come una botta di adrenalina, cominciamo a muoverci sempre più velocemente finchè non intravediamo la partenza vera ( come saprete, il tempo effettivo è calcolato tramite il chip presente nel pettorale, quindi non conta quando viene dato il via ma quando l’atleta passa sopra la start line ). Le note di “New York, New York” ci accompagnano fino alla linea: si parte, finalmente.
Il ponte è maestoso, enorme: se non sapessi che è un ponte direi che è la Firenze-mare con le carreggiate più ampie. I primi 2 km sono in salita per arrivare al colmo del ponte, ma non si sente davvero: sono impegnato a godermi lo spettacolo della baia. Dopo neanche un chilometro vedo un uomo che si ferma e si defila: mi passa un brivido. Una volta terminato il ponte posso cominciare a regolarizzare la mia corsa, fino a quel momento obbligatoriamente irregolare per via delle tante persone accanto e davanti. Supero i più lenti per trovare il corridoio migliore, allungare la falcata e trovare il ritmo. Per fortuna vedo uno spiraglio buono e parto col mio passo gara: 5.30 al chilometro, non più veloce perchè non voglio sollecitare troppo il ginocchio infortunato un mese fa. Il percorso, a partire da Brooklyn, è incredibile: migliaia di persone ai lati della strada a fare il tifo, migliaia di bambini che tendono le mani di tutti i colori verso i corridori sperando in un “cinque” nonostante le nostre mani sudaticce, migliaia di “Go Domenico” da chi riusciva a leggere il mio nome sulla maglietta o di “Go Italia” per chi riusciva a leggere solo il nome della nazione sulla stessa maglietta. Boati ad ogni curva, come se a passare fosse un parente o un idolo, cartelloni preparati “per i maratoneti” e non solo per “il maratoneta John Smith”. Per fortuna non ho portato il cardio, mi dico… Guardo l’orologio e vedo che sono già a 12 chilometri, ritmo perfetto. Si arriva nel Queens, si avvicina il Queensboro Bridge, uno degli spauracchi: 2 km di ponte con una salita da paura dopo 23 km… Il ponte è coperto, affascinante, ma il vento è tanto in quel punto e devo tenere il pettorale con una mano perchè ho paura che si strappi.
A metà del ponte, i cartelloni ci danno il benvenuto a Manhattan e, svoltato l’angolo subito dopo la fine del ponte, l’ingresso nella 1st Avenue ci regala l’ennesima, straripante emozione della gara: una muraglia umana urla a squarciagola non appena ci vede sbucare; passare dal silenzio del ponte a quell’incitamento è quasi stordente: sono un po’ frastornato ma non perdo il ritmo, continuo a martellare a 5.30 al km. Molta gente comincia a camminare, i chilometri cominciano ad essere tanti: il prossimo obiettivo è Central Park, ma intanto passiamo dal Bronx e da Harlem ed anche qui l’incitamento è lo stesso, irrefrenabile. L’ingresso in Central Park sancisce l’inizio dell’ultima parte della gara: circa 7km. Sto bene, non ho fastidi al ginocchio e sono contento. Ma purtroppo New York è infìda: i saliscendi di Central Park si rivelano delle vere e proprie bastonate per i muscoli delle gambe. Mi accorgo che qualcosa non va quando provo una sensazione mai sentita prima al tendine d’Achille destro; dopo pochi secondi il polpaccio comincia a tirare un po’ e dopo qualche minuto sento un dolore lancinante al bicipite femorale destro. E’ il 38° km. La gamba è rigida come un tronco d’albero e fa male, ma non mi scoraggio: mi accosto a destra dove scorgo una bassa recinzione che fa al caso mio.
Parto con una sessione di stretching massiccio alla gamba destra, ma in quel momento sento la stessa fitta lancinante anche al bicipite femorale della gamba sinistra. Mi dico che devo sopportare finchè la destra non si sblocca, stringo i denti e continuo. Finalmente sento la gamba destra migliorare, la piego ed il crampo non torna. Bene, penso, passiamo all’altra. Stretching duro anche alla sinistra, quando una spettatrice 40enne americana mi chiede: “Crampi ? Anche a me l’anno scorso la stessa cosa e nello stesso punto del percorso. Mi sono dovuta ritirare, fallo anche tu, non c’è nulla da fare”. La ringrazio dell’interessamento in inglese e la mando a quel paese in italiano. Anche la gamba sinistra sta meglio, mi accingo a provare a camminare quando un’altra signora americana ( molto più anziana della prima ) si avvicina e mi chiede se ho i crampi. Rispondo di sì ed allora lei rovescia la borsa per tirare fuori una boccetta di pillole di magnesio: “Magnesio, magnesio, ti fa passare i crampi !” Me ne dà due, la ringrazio e ricomincio a correre. Guardo l’orologio: sono stato fermo 12 minuti, ma probabilmente quei 12 minuti mi hanno regalato la medaglia. Mancano sempre 4 km, mi dico che devo farcela a tutti i costi. Le gambe sembrano andare, riesco a prendere un buon ritmo quando sento nuovamente la strana sensazione al tendine d’Achille destro: un attimo di terrore, ma poi la lucidità ha il sopravvento. Non posso fermarmi, so che se mi fermo non riparto più. Allora ho il colpo di genio: modifico l’appoggio del piede destro, forzandomi a portare la punta del piede molto più verso l’alto rispetto al passo normale in modo che, ad ogni passo, il tendine tiri di più e di conseguenza anche il polpaccio e la coscia. La cosa funziona benissimo, riprendo vigore e mi lancio verso gli ultimi 3 km. Central Park sembra non finire mai, la folla è sempre più rumorosa perchè siamo alla fine e per loro un finisher è un eroe, ed io mi dico che non posso mollare. Vedo il cartello “400 yards to the finish line”, poi quello “300 yards to the finish line”. Devo farcela, soffrire e farcela. “200 yards to the finish line”, non sento più niente, nè muscoli nè tendini, stringo il pugno destro e digrigno i denti, sento un vociare infinito a 360°, “100 yards to the finish line”. La strada gira leggerissimamente a sinistra, ma quel piccolissimo angolo mi basta per vedere la finish line, con lo stuolo di fotografi ufficiali pronti ad immortalarmi con le braccia alzate. Ormai è fatta, ce l’ho fatta. La gente è indefinibile, sembra di essere alla finale della coppa del mondo, per gli ultimi 100 metri ci sono gli spalti e sono ovviamente stracolmi di gente che grida, fra gli altri, anche il mio nome. Sento un nodo alla gola, ma non voglio dare a NY anche questa soddisfazione. Stringo nuovamente i pugni, tutti e due, dico “e vai!” e mi accorgo che sono a 10 metri dall’arrivo: allargo le braccia, chiudo gli occhi e chino la testa leggermente all’indietro.
E’ finita. Sono un maratoneta ed ho conquistato New York City.